ANNA

Niccolò Ammaniti: «Io non ho più paura dei bambini grazie ad Anna»
la Repubblica, 12.04.2021


Ammetto che prima di cominciare le riprese ero terrorizzato. Li sognavo la notte. Mi svaligiavano casa, mi smontavano lo stereo, mi avvelenavano i pesci nell’acquario.
Io non ho figli e tantomeno nipoti. Gli unici bambini che conosco sono quelli che popolano i miei romanzi. Michele, il protagonista di Io non ho paura, Pietro, quello di Ti prendo e ti porto via. Fatti di parole, chiusi nelle pagine dei libri, non fanno male a nessuno.
Quelli veri, in carne e ossa, li ho sempre evitati. I miei amici che si sono riprodotti conoscono questa mia fobia e hanno sempre fatto in modo che i loro pargoli mi stessero alla larga. Se proprio mi fosse capitato di incontrarne uno, avrei elargito un “che carino…” sorridendo a denti stretti. E subito dopo consigliavo ai genitori collegi in Svizzera, convitti, riformatori.
Cosa diavolo mi era preso, allora? Tra casting, prove e riprese avrei dovuto passare più di un anno con una banda di piccoli tiranni capricciosi a cui avrei sacrificato mesi della mia vita, e la mia sanità mentale, implorandoli di recitare. La gente del cinema ha poche paure, vive in una costante incertezza, ma ha alcuni punti fermi: mai film sulla neve, sulle barche e con animali e bambini.
Claudio Stefani, un mio amico che fa l’attrezzista e che ha lavorato con me a Il miracolo mi ha detto: “Io ci sto Nic, ma t’avverto, i bambini so’ tosti. Armati di pazienza e pupazzetti. Altro che le star…”. E mi ha raccontato di nanerottoli capaci di bloccare un set fino a quando non ricevevano un gelato al pistacchio con i croccantini sopra o una pizza con i wurstel. A quei mostri i poveri registi regalavano di tasca loro playstation, gameboy e vacanze a Disneyland, pur di chiudere la giornata. “Sono una lobby” ha concluso.
Da quel momento ho cominciato a fare scorta di pazienza, di dolci e di pupazzi, e a studiare su YouTube giochetti e passatempi con cui avrei tentato di ingraziarmeli. Lorenza, mia moglie, quando mi ha sorpreso a cercare su Amazon un completo da pagliaccio mi ha suggerito di lasciar perdere: “Ricordo che tanti anni fa avevi scritto un soggetto su un omicidio in una casa di riposo. Fai quello, no?”.
Magari. Troppo tardi. La macchina era partita. Ho affidato a Lorenza il coaching e la supervisione dei casting e io mi sono concentrato sui sopralluoghi, i costumi e le scenografie. La sera mi arrivavano centinaia di video in cui bambini di ogni razza e credo parlavano, o troppo timidi o troppo spavaldi, delle materie che preferivano, degli sport che praticavano e del perché ci tenessero tanto a diventare attori. Li osservavo come se non fossero miei simili.
Una delle prime considerazioni che avevo fatto durante la scrittura del romanzo Anna era stata proprio che un alieno caduto sul nostro pianeta avrebbe certamente concluso che adulti e bambini non appartengono alla stessa specie. Questi ultimi li avrebbe classificati alla stregua di cani e gatti. Degli esserini goffi e capricciosi che i grandi portano in giro (a volte su carretti), lasciano nelle scuole e liberano al parco. Poi mi ero domandato: e se un giorno, per qualche oscura ragione, gli adulti sparissero? Che farebbero i bambini? Come si organizzerebbero? Sarebbero in grado di formare una società? Di occuparsi dei più deboli, di procurarsi cibo e insegnare ai più piccoli a leggere? Ma come disfarsi degli adulti? Forse un virus che per qualche oscura ragione non infettava i bambini. La storia ha funzionato.
Ma avrebbe funzionato anche con i bambini veri?
Quando sono arrivato a Palermo per i provini, entrando nel grande albergo del centro che ci ospitava, ho pensato che ci fosse una scolaresca in gita. Erano centinaia, correvano, strillavano, piangevano, si accalcavano nella hall circondati da madri e padri.
“Attento ai genitori, non li guardare” mi ha sussurrato un’assistente con una minuscola biondina avvinghiata alla caviglia. I genitori. Non li avevo considerati. Ognuno di loro era certo di avere messo al mondo un Robert Redford o una Monica Bellucci in miniatura e aspettava solo me per dimostrarlo all’umanità.
Il primo bambino che si è seduto in fronte a me aveva otto anni, un ciuffo biondo che gli attraversava la fronte e i capelli rasati ai lati. Dopo aver incrociato le braccia e lasciato penzolare i piedi sotto la sedia mi ha fissato dritto negli occhi.
Io gli ho detto: “Ciao. Come ti chiami?”.
Ha riflettuto prima di rispondere: “Stefano Gambino. Terza C”. Poi si è guardato intorno come se non fosse convinto che un provino si potesse fare in un albergo. Ha scrutato Lorenza, gli assistenti e ha aggiunto: “Tu sei Niccolò Ammaniti?”.
“Sì”. Una pausa. “E sei scrittore”.
“Sì.”
Ha assentito, studiandosi le scarpe. Tutto sembrava tornargli, poi ha chiesto: “E perché fai il regista?”
Silenzio. Ho deglutito. Era entrato come un bisturi in un punto delicato. Il direttore del casting, l’aiutoregista e gli altri in sala si sono girati verso di me in attesa. Ho preso coraggio e ho ribattuto: “E tu che sei bambino, perché fai l’attore?”.
“È mamma che vuole. Ci tiene”.
“A te non ti va?”.
Stefano ha tirato su con il naso e ha sollevato le spalle. “Non lo so. Devo scoprirlo”.
“Io pure”. Ho annuito. “Potremmo scoprirlo insieme?”.
Lui ha fatto sì con la testa.
Con il passare dei giorni ho capito che lavorare con i bambini è meraviglioso. La mattina mi svegliavo spesso di cattivo umore, attraversavo la città per andare sul set borbottando che non ero contento della location e del tempo a disposizione per girare, tutto mi irritava, ma arrivato al campo trovavo i miei piccoli attori che ridevano e cantavano seduti sulle poltrone del trucco ed ecco scattare una scintilla capace di accendere la mia giornata e quella dell’intera troupe. I bambini ci trascinavano in un vortice di gioco, sudore, risate che ci rendeva più uniti e concentrati. Perché i bambini danno il massimo, non si risparmiano mai, fino a quando all’improvviso, come un’auto senza carburante, si spengono. E lì non c’è più niente da fare. Sono esauriti, almeno fino al giorno successivo. Perciò ci spronavano a lavorare con più concentrazione, evitando di perderci nelle cose dei grandi.
Giulia Dragotto, Anna, e Alessandro Pecorella, Astor, i due protagonisti della serie, dopo le riprese, ovunque fossero, dovevano studiare. Io invece me ne tornavo in camera distrutto, e mi accorgevo che mi mancavano. Talvolta, di notte, non resistevo e gli mandavo delle foto del set. Per loro rispondevano i genitori, scrivendo che i figli dormivano e che dovevo riposare pure io.
Una grande verità che ho imparato è che di fronte a una macchina da presa i bambini non recitano, giocano. L’infanzia è il periodo della vita in cui la capacità di vedere oltre il reale, d’immaginare mostri, di trasformare una bottiglia in un’astronave e un tappeto in un pianeta è alla massima potenza. La fantasia è una bocca avida che inghiotte la realtà, anche la più amara rendendola innocua. I bambini hanno giocato durante le pestilenze, hanno giocato sulle macerie provocate dalle bombe e nei campi di concentramento. E giocare è quello che devono fare pure gli attori. I bambini si affidano completamente al regista, non cercano di capire il senso del film, non si chiedono chi sono nella storia, non leggono la sceneggiatura, imparano a memoria le battute come le poesie a scuola e ogni passo che compiono vale per se stesso, non hanno una vetta da raggiungere. Dimenticano la macchina da presa e i microfoni che incombono sulle loro teste, non si curano delle luci che li accecano e corrono, piangono, ridono per il gusto di farlo. Ogni tanto li chiamavo al monitor chiedendo se volessero rivedersi, ma di solito mi rispondevano: “No grazie, non importa”.
Ai bambini non importano le cose che importano agli adulti.
Poi superano i tredici, quattordici anni e così come cambiano fisicamente, cambiano come attori. Perdono naturalezza, la macchina da presa non è più un compagno silenzioso con cui giocare, ma uno specchio in cui rimirarsi e che mostra tutti i nostri difetti e le nostre timidezze. Siamo belli o brutti? Grassi o magri? Siamo giusti per il ruolo che dobbiamo interpretare? La verità è che l’adolescenza ci frega. Il vortice ormonale della pubertà ci spinge come una ruspa verso il conformismo. Si apre la crepa insanabile tra chi siamo e chi vorremmo essere. E questo fa sì che gli adolescenti, tranne rari casi, siano attori complessi da trattare e soffrano dolori indicibili durante le riprese. A ogni indicazione attoriale reagiscono offendendosi, scaldandosi e allontanandosi dalla spontaneità.
L’infanzia è un bene che va preservato perché le nostre migliori intuizioni sono frutto del poco che resta in noi di quel tempo.
Girare con i bambini mi ha fatto innamorare del mestiere di regista e me lo ha reso divertente. Più che un padre, mi son sentito un loro compagno. Abbiamo riso e giocato, e spero che questo, nella serie, si percepisca.
Stefano Gambino, quello col ciuffo che ho conosciuto per primo al casting, è uno degli attori più pazienti e generosi con cui ho lavorato. Un piccolo stuntman. Ha fatto cento volte le scale di un palazzo armato di un manico di scopa e dipinto di blu, in testa a una masnada di piccole belve infuriate. E si è gettato nella tromba di un ascensore con un sorriso sulla bocca.
Quando gli ho chiesto che si prova a morire ha piegato la testa da una parte e, serio, mi ha risposto: “È divertente”.

 

 

Serie creata e diretta da Niccolò Ammaniti. Sceneggiatori: Niccolò Ammaniti e Francesca Manieri. Una serie Sky Original commissionata da Sky Studios per Sky Italia.

 

Episodi: 6; durata: 50 minuti. (2021)


Il miracolo

L’Italia è sulla soglia del referendum che può portarla fuori dall’Europa. In otto giorni quattro personaggi si trovano a contatto con l’evento più grande della loro esistenza, un evento che avrebbe il potere di cambiare il mondo e che cambierà per sempre le loro vite.

Il giovane presidente del consiglio Fabrizio Pietromarchi è un politico giusto, un progressista, ateo, è alle prese con il momento più delicato della sua carriera politica e sua moglie, l’esplosiva e indomabile Sole, minaccia di lasciarlo. Padre Marcello, prete di periferia, dopo anni e anni di devota fede e missioni in Africa, è preda di pulsioni incontenibili, il gioco d’azzardo, il sesso, la pornografia distruggono la sua anima. Cerca un segno di Dio per battere il demonio. Il generale Votta è un uomo solitario, custode della sicurezza, nemico di tutto ciò che può turbare l’ordine costituito, è afflitto da una fastidiosa forma di sinusite. L’ematologa Sandra cura da anni una madre ridotta ormai a un vegetale, a lei ha sacrificato ogni aspetto della sua vita, anche il suo amore per Amanda, per ridarle la vita è pronta a tutto. Sono loro i primi a venire a contatto con l’incredibile reperto rinvenuto nel covo del boss Molocco: una statuetta della Madonna che piange senza sosta sangue umano. Loro ad averne la responsabilità.

Una piscina dismessa dell’esercito è il luogo deputato a custodire un mistero che sembra non avere spiegazioni, un mistero che avrebbe il potere di destabilizzare il paese già in equilibrio precario. L’intelletto, la ragione di stato, la fede o la scienza saranno le vie tentate per rispondere di un fenomeno incomprensibile. Più si cercano risposte, più le domande si moltiplicano. Chiunque di loro si addentrerà nel tentativo di comprendere, gestire o contrastare la Madonna finirà per scendere in un abisso di eventi che modificherà irreversibilmente la sua vita per lasciare intatta la potenza incomprensibile del miracolo.

Una serie creata da Niccolò Ammaniti. Sceneggiatura di Niccolò Ammaniti, Francesca Marciano, Francesca Manieri e Stefano Bises.

Regia di Niccolò Ammaniti, Francesco Munzi e Lucio Pellegrini.

Episodi: 8; durata: 50 min. (2018)
 

Note di regia

Ho un solo obbligo quando scrivo una storia, sollecitare i miei lettori a completare con la loro immaginazione quello che tratteggio. Racconto, per esempio, di una casa e ne abbozzo i contorni, i dettagli fondamentali che la distinguono dalle altre, l’oscurità che regna sotto le scale di giorno, l’odore dell’intonaco umido, il muschio sulle tegole di cotto, il rumore dei passi sulle mattonelle sconnesse, o la pittura screpolata sulle persiane. Di un volto accenno gli occhi che non si fermano mai, lo spazio tra gli incisivi che sbuca da un sorriso. Il resto lo affido alla memoria e alla fantasia di chi legge. La magia della letteratura è in questo scambio, nel buio che lo scrittore regala al lettore perché possa illuminarlo a suo piacere. Il cinema non funziona così. Allo spettatore, seduto sulla sua poltrona, va consegnato tutto il pacchetto. Le luci, i luoghi con gli oggetti che li abitano, i volti incarnati dagli attori, i vestiti, le movenze dei personaggi, addirittura la musica che sottolinea un bacio di addio. L’azione non può essere descritta attraverso uno sguardo, un’inquadratura non è sufficiente, deve essere scomposta, sezionata in decine di sguardi, di punti di vista e movimenti che, ricomposti dal montaggio, formano la scena. Questa è stata la prima lezione che ho dovuto imparare approcciandomi alla realizzazione de Il Miracolo. Sono un uomo fortunato. Ho avuto il valido aiuto di due bravi compagni, i registi Francesco Munzi e Lucio Pellegrini. Insieme abbiamo tentato, per raccontare questa serie, di prediligere una visione oggettiva, lo sguardo furtivo di uno spettatore invisibile che, per caso, sia finito poco lontano dal centro dell’azione e che cerchi di spiare quello che gli si para davanti, fosse il miracolo di una statuetta della Vergine che lacrima sangue o i giochi perversi di due bambini. Abbiamo semplicemente seguito l’evolversi degli eventi, spesso precipitosi, con un passo un poco più lento delle figure che lo animano.

Niccolò Ammaniti